16 – Liszt e l’arte

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Le lettere private di Liszt come quelle pubbliche (le famose Lettres d’un bachelier ès-musique) scritte in questi anni per la Gazette musicale di Parigi sono piene di riferimenti all’arte italiana: Raffaello, Michelangelo, Carracci, Bellini, Beato Angelico…

Il bello di questo privilegiato paese mi appariva sotto le sue forme più pure e sublimi. L’arte si mostrava ai miei occhi in tutto il suo splendore, si rivelava a me nella sua universalità e nella sua unità. Il sentimento e la riflessione mi convincevano, ogni giorno di più, della relazione nascosta che unisce le opere al genio creatore. Raffaello e Michelangelo mi facevano capire meglio Mozart e Beethoven, Giovanni Pisano, Beato Angelico, mi spiegavano il Correggio, Benedetto Marcello, Palestrina. Tiziano e Rossini mi apparivano come due astri dai raggi simili.

Liszt a Parigi aveva conosciuto e frequentato lo scrittore d’arte Alexis-François Rio, uno dei teorici che avrebbero maggiormente ispirato l’evoluzione dell’arte cristiana nel corso dell’Ottocento. Nel 1832 Liszt aveva presentato una scelta di Lieder di Schubert – allora pressoché sconosciuto in Francia – proprio nel salotto di Rio. L’intellettuale francese di lì a poco, nel 1835, avrebbe dato alla luce De la poésie chrétienne – Forme de l’art, un libro che tratta dell’arte cristiana da Cimabue alla morte di Raffaello. Il testo non ebbe un grande successo in Francia, ma venne accolto con grande entusiasmo in Italia e in Germania: l’esaltazione della pittura cosiddetta “primitiva”, la semplicità di composizione, il superamento del naturalismo giottesco, simbolismo e trasporto mistico, l’adesione alla corrente religiosa della cerchia di Ingres e dei suoi allievi e ildesiderio di formare una confraternita di artisti parallela a quella dei Nazareni erano i temi fondanti del suo pensiero critico che trovava punti di contatto con altri artisti frequentati da Liszt a Parigi, in particolare Ary Sheffer. Autore di numerosi quadri di soggetto religioso di ispirazione cattolica nonostante la sua fede protestante, Sheffer fu anch’esso animatore di un atelièr / salon dove si incrociavano intellettuali, pittori, musicisti, politici. Le due tele di Sheffer del 1835 sul soggetto di Dante e Virgilio che incontrano le anime di Paolo e Francesca, assieme all’imponente Barca di Dante del 1822 di Delacroix, sono state opere importanti per la riflessione di Liszt su Dante, che fu vero compagno di viaggio e costante tema di interesse nel pellegrinaggio italiano di Franz e Marie, da Como, dove la coppia espresse perplessità di fronte alla statua di Dante e Beatrice di Giovanni Battista Comolli (così magnificata nella guida del Valéry) a Firenze con von Stürler e i suoi interessi danteschi, e a Roma con Ingres (altro interprete dell’episodio di Paolo e Francesca) e con Joseph Anton Koch, l’autore degli affreschi danteschi del Casino di Villa Giustiniani Massimo. Ingres, con i suoi soggiorni romani e fiorentini, divenne uno dei principali punti di riferimento per il movimento purista italiano, “capeggiato” da Lorenzo Bartolini, lo scultore che Liszt avrebbe voluto come autore del monumento di Beethoven a Bonn. Naturalmente la frequentazione artistica con Ingres fu quella a rivestire per Liszt il carattere più intenso e particolare tra tutte quelle avute con artisti come Overbeck e i Nazareni, Koch, Henri Lehmann (il pittore tedesco che Liszt e Marie frequentano in Italia e col quale Marie avrà successivamente una relazione). Ingres era infatti un abile violinista, amico di Paganini e Baillot, e con Liszt passò ore a suonare opere per violino e pianoforte di Mozart, Beethoven e Bach. L’attitudine del pittore francese verso la musica fu talmente forte d’aver lasciato traccia nell’espressione colloquiale francese avoir un violon d’Ingres, con la quale si intende la capacità di un’artista di avere un’uguale perizia tecnica ed espressiva in altra attività artistica differente da quella principale. L’importanza del rapporto di Liszt con l’arte e la ricchezza delle sue frequentazioni artistiche non possono essere riassunte in brevi cenni. Riportiamo qui solo un momento impressivo di questo rapporto: la tappa bolognese del viaggio di Liszt, in particolare il primo breve soggiorno dell’ottobre 1838, avrebbe lasciato un’importante testimonianza nella lettre d’un bachelier es-musique dedicata alla visita all’Accademia di Belle Arti di Franz e Marie.

Arrivando a Bologna, corsi al Museo; attraversai senza fermarmi tre sale piene di quadri di Guido, del Guercino, dei Carracci, del Domenichino ecc.; avevo fretta di vedere la Santa Cecilia. Sarebbe per me difficile, addirittura impossibile, farvi capire ciò che ho provato trovandomi all’improvviso di fronte a questa magnifica tela in cui il genio di Raffaello ci appare in tutto il suo splendore. Conoscevo i capolavori della scuola veneziana; avevo appena visto i Van-Dyck di Genova, i Correggio di Parma e a Milano la Madonna del Velo, una delle più sublimi creazioni di Raffaello. Ma, pur ammirando l’ardimento, lo splendore, la verità, la soavità di questi dipinti, sentivo che con nessuno ero entrato intimamente in contatto; ero sempre rimasto spettatore. Nessuna di queste belle composizioni si era, se posso esprimermi cosi, impadronita di me com’è accaduto con la Santa Cecilia. Non so per quale segreta magia, questo quadro mi si presentò immediatamente sotto un duplice aspetto: innanzi tutto come un’incantevole espressione della forma umana in ciò che ha di più nobile, di più ideale, come un prodigio di grazia, di purezza, d’armonia; poi nello stesso istante e senza alcuno sforzo d’immaginazione, credetti di riconoscervi un simbolo ammirevole e completo dell’arte cui abbiamo consacrato la nostra vita. La poesia dell’opera mi apparve in modo tanto visibile quanto la disposizione delle sue linee e la sua bellezza ideale mi prese quanto quella plastica. Il pittore ha scelto il momento in cui Santa Cecilia si appresta a cantare un inno a Dio onnipotente: sta per celebrare la gloria dell’altissimo, l’attesa del giusto, la speranza del peccatore; la sua anima freme dello stesso fremito misterioso che coglieva Davide quando si accingeva a suonare la santa arpa. All’improvviso i suoi occhi sono mondati da un chiarore, le sue orecchie d’armonia; le nubi si schiudono, i cori degli angeli le appaiono, l’eterno hosanna risuona nell’immensità. Gli occhi della vergine si levano al cielo, tutto il suo atteggiamento esprime l’estasi, le sue braccia ricadono languide lungo i fianchi, si lasciano quasi sfuggire lo strumento sul quale canta i sacri cantici. Si sente che la sua anima non è più sulla terra; il suo bel corpo sembra pronto a trasfigurarsi… Ditemi, non avreste visto – come me – in questa nobile figura il simbolo della musica al suo livello più alto di potenza? L’arte, in ciò che ha di più immateriale, di più divino? Questa vergine sospinta oltre la realtà dall’estasi, non è forse l’ispirazione quale talvolta giunge al cuore dell’artista, pura, vera, rivelatrice e liberata da ogni appesantimento grossolano? I suoi occhi fissati sulla visione, l’inenarrabile voluttà diffusa su tutti i suoi lineamenti, il languore delle sue braccia che si piegano sotto il peso di una beatitudine sconosciuta: non è forse l’espressione dell’impotenza umana in lotta col desiderio e la percezione delle cose divine? Non è la più poetica idealizzazione dello scoraggiamento che prende il poeta nel momento dell’abbondanza e della pienezza della sua partecipazione agli infiniti misteri, quando sente e comprende che non potrà riportare agli uomini niente di quel banchetto celeste al quale è stato invitato? […]

Liszt esprime nell’articolo profonda commozione di fronte al quadro di Raffaello, ma dal diario di Marie si evince che al momento della visita le loro impressioni fossero state di altro tenore: sembra infatti che Franz abbia ammirato soprattutto il grande dipinto della Pietà dei mendicanti di Guido Reni, avanzando invece alcune critiche alla Santa Cecilia. Forse, ripensando “criticamente” al dipinto nel momento in cui scrisse la lettera, e considerando le sue lettere come importanti momenti di riflessione teorica, Liszt sarebbe ritornato ad una visione di Raffaello più vicina alle teorie dell’arte cristiana da lui frequentate, che furono anche ispirative della sua produzione musicale cristiana, come Die heilige Cäcilia-Legende e Cantantibus organis (opere scritte negli anni ‘70 e più volte riveduti), come la trascrizione per pianoforte del brano strumentale di Charles Gounod Hymne à Sainte Cécile nel 1866 o il grande oratorio Die Legende der heiligen Elisabeth, una delle opere in cui cerca più ambiziosamente di realizzare un i rapporto tra musica, poesia e arte. Il libretto dell’oratorio traeva infatti ispirazione dal ciclo di sei affreschi realizzati da Moritz von Schwind per il castello di Wartburg.

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