Nicolas Dufetel è ricercatore presso il CNRS di Parigi (IReMus, Institut de recherche en musicologie), e insegna alla Université catholique de l’Ouest, Angers. Dopo ave studiato storia e musicologia, ha dedicato la sua tesi di dottorato alla musica religiosa di Franz Liszt (François-Rabelais University, Tours, 2008). L’insegnamento e le attività di ricerca riguardano la storia della musica, l’analisi, l’estetica (Liszt, Wagner, il 19° Secolo, gli studi Ottomani), i Cultural Studies.
Nicolas Dufetel is a researcher at the CNRS, Paris (IReMus, Institut de recherche en musicologie), and teaches at the Université catholique de l’Ouest, Angers. After studying history and musicology, he devoted his doctoral thesis to the religious music of Franz Liszt (François-Rabelais University, Tours, 2008). His teaching and research activities include the history of music, analysis, and aesthetics (Liszt, Wagner, 19th Century, Ottoman studies), and Cultural studies.
“Io non so se son Valacchi O se Turchi son costor”:
La rapsodia “rumena” di Liszt come esempio di trasferimento e transculturalità tra Europa e Turchia
Nicolas Dufetel, CNRS-IReMus, Paris
Nel 1930 Béla Bartók informò Octavian Beu, diplomatico e musicografo rumeno, che il Museo Liszt di Weimar conteneva “una Rapsodia, finora inedita, che forse utilizza temi rumeni”. L’anno successivo, Beu pubblicò un libro su Liszt e la Romania (secondo i confini post-1919), Franz Liszt în ţara noastră, in cui dedicò due capitoli alle influenze musicali rumene nella sua musica, ma anche uno sui suoi concerti nel Palazzo del Sultano. Il viaggio di Liszt in Romania è infatti legato, cronologicamente e geograficamente, alla sua esperienza turca, o ottomana. Beu, quando pubblicò la partitura inedita di Weimar nel 50° anniversario della morte del compositore, scelse il titolo apocrifo di Rapsodia “rumena”, testimonianza della fondazione nazionale rumena. Come le altre Rapsodie ungheresi di Liszt, anche questa è strettamente legata ai suoi viaggi, come sfida alle frontiere e alla geopolitica storica e nazionalistica.
La storia e la geografia della genesi di questa Rapsodia postuma risalgono alle sue tournées, tra il 1846 e il 1847, in quelle regioni che egli chiamava “i paesi perduti”, che lo avrebbero condotto infine a Costantinopoli. Al suo secondo concerto per il Sultano, l’11 giugno 1847, un critico osservò che improvvisò su “vecchie arie valacche che hanno una forte somiglianza con le arie turche”. Prima di arrivare sul Bosforo, Liszt aveva attraversato quelle regioni dei Balcani dove la dominazione turca aveva lasciato una profonda orma, e dove era ancora una realtà: i “Principati danubiani”, la Valacchia e la Moldavia, base, con la Transilvania, del moderno stato nazionale rumeno. Come Liszt stesso racconta nel suo libro Des Bohémiens et de leur musique en Hongrie, che può essere letto attraverso una visione orientalista, ebbe allora modo di ascoltare musicisti Rom il cui stile si mescolava alla musica turca o “orientale”.
Questa relazione, come prova di “geomusicologia”, si propone di studiare la transculturalità della Rapsodia “rumena” utilizzando la teoria dei trasferimenti culturali. Lo studio della sua genesi e la sua analisi musicale, combinati con la geografia di Liszt, ci permettono di interrogarci sulla sua identità multipla. Infatti, potrebbe essere facilmente considerata una rapsodia “valacca” o “ottomana”. È una partitura in cui non solo confluiscono melodie di diverse identità, ma rivela anche un dialogo tra le cosiddette categorie “occidentali” e “orientali”: sfida le definizioni tradizionali di orientalismo e ci permette di vedere il fenomeno in modo diverso da un punto di vista estetico.
“Io non so se son Valacchi O se Turchi son costor” :
Liszt’s “Romanian” Rhapsody as an example of cultural transfer and transculturality between Europe and Turkey
Nicolas Dufetel, CNRS-IReMus, Paris
In 1930 Béla Bartók informed Octavian Beu, a Romanian diplomat and musicograph, that the Liszt Museum in Weimar contained “a Rhapsody, hitherto unpublished, which perhaps uses Romanian themes.” The following year, Beu published a book on Liszt and Romania (according to post-1919 boundaries), Franz Liszt în ţara noastră, in which he devoted two chapters to Romanian musical influences in his music, but also one on his concerts at the Sultan’s Palace. Liszt’s trip to Romania is in fact linked, chronologically and geographically, to his Turkish, or Ottoman, experience. Beu, when editing the unpublished Weimar score on the 50th anniversary of the composer’s death, chose the apocryphal title of “Romanian” Rhapsody, evidence of Romanian national construction. Like Liszt’s other Hungarian Rhapsodies, this one is closely linked to his travels as a challenge to borders and historical and nationalistic geopolitics.
The history and geography of the genesis of this posthumous Rhapsody go back to his virtuoso tours, between 1846 and 1847, in those regions he called “the lost countries,” which would eventually lead him to Constantinople. At his second concert for the Sultan, on June 11, 1847, one critic observed that he improvised on “old Wallachian airs that bear a strong resemblance to Turkish airs.” Before arriving on the Bosporus, Liszt had traveled through those regions of the Balkans where Turkish rule had left a deep footprint, and where it was still a reality: the “Danubian Principalities,” Wallachia and Moldavia, the basis, with Transylvania, of the modern Romanian nation-state. As Liszt himself recounts in his book Des Bohémiens et de leur musique en Hongrie, which can be read through the prism of Orientalism, he then had the opportunity to listen to Gypsy musicians whose style was mixed with Turkish or “Oriental” music.
This paper, as a kind of “geomusicology,” aims to study the transculturality of the “Romanian” Rhapsody using cultural transfer theory. The study of its genesis and musical analysis, combined with Liszt’s geography, allow us to question its multiple identity. Indeed, it could easily be considered partially a “Wallachian” or “Ottoman” rhapsody. It is a score in which not only melodies of different identities converge, but also reveals a dialogue between so-called “Western” and “Oriental” categories. It challenges traditional definitions of Orientalism and allows us to see the phenomenon differently from an aesthetic point of view.
Nicolas Dufetel, CNRS-IReMus, Paris